Berlino contro le immagini di Che Guevara: al bando magliette, foto e graffiti?
Sul Berliner Zeitung del 2 settembre si parla di “Rivoluzione contro Che Guevara”, con la CDU lanciata in una campagna per sanare Berlino dalle immagini di Ernesto, che si tratti di magliette o di fotografie poco importa. C’è chi vede il Che come un eroe morto lottando per la libertà, mentre per alcuni esponenti del partito di Angela si tratta di un brutale violento (“ein brutaler Gewalttäter”). Le parole dell’esponente CDU Matthias Steuckardt pubblicate dal quotidiano fanno riferimento all’importanza della visione che si offre ai giovani: “Volevamo esortare il Bildungssenat a fornire ai pedagogisti una circolare sul Che, di modo che possano discuterne in modo fondato con gli studenti.” Al cuore del problema, la visione del rivoluzionario che va per la maggiore: una visione che non ne prende in considerazione le azioni violente. La proposta è stata bocciata dalla sinistra, ma ciò non toglie che il tema resti interessante da indagare: allarghiamo l’analisi al di fuori di Berlino.
Nel maggio di quest’anno, la Germania ha subito il destino comune alle nazioni europee: le strade si sono colorate dei cartelloni elettorali dei più svariati partiti. Tra le facce dei manifesti, anche la sua: l’icona di Guevara è stata utilizzata dall’MLPD (il Partito marxista-leninista tedesco) proprio per la campagna elettorale europea e, come ironizzava il Tagesspiegel sulla scelta del “candidato”, “Leider schon verstorben” (“Purtroppo già passato a miglior vita”). La questione ha attirato sull’MLPD le ire di Michael Rogowski (ex Presidente della Bundesverbandes der Deutschen Industrie), residente a Heidenheim (vicino a Ulm): come racconta Rogowski a Die Welt: “Un manifesto era appeso proprio vicino a casa nostra, ad un lampione, lo vedevo sempre, girando a destra appena uscito dalla porta. […] Mi dava tanto ai nervi, che l’ho smontato e l’ho messo in cantina.” Rogowski (il cui padre era nella Resistenza polacca) è stato poi costretto a consegnare il manifesto elettorale alla polizia, che ha provveduto a riappenderlo al lampione (luogo pubblico). Ciò che colpisce è il gesto del cittadino, punto sul vivo dall’immagine.
Restando sempre nel Baden-Württemberg, un altro caso interessante di utilizzo più o meno improprio dell’icona è stato sottolineato dal sito di blu-news (il quale si autodefinisce “civile, liberale, indipendente”, curioso per altro come la parola utilizzata “bürgerlich” in tedesco significhi sia “civile” che “borghese”); stando al sito, la città di Augsburg è responsabile dello stadio di hockey (il Curt-Frenzel-Eisstadion) il cui sponsor è da anni la BOB´s Gastronomie- und Veranstaltungs- GmbH, nel cui logo campeggia il faccione barbuto del Che (date un occhio). Posta dinnanzi alla questione della presenza dell’immagine chiaramente visibile all’ingresso dello stadio, l’amministrazione cittadina ha risposto che la fotografia di Guevara fa parte delle più famose del nostro secolo, che nel caso preso in considerazione l’illecito non sussiste e che infatti la responsabilità della pubblicità utilizzata è di chi la utilizza: l’amministrazione “non ritiene quindi che i giovani mettano in relazione la condotta e le attività di Che Guevara con la Città di Augsburg.” Questione di voler vedere il male dove non c’è? Per capire se si tratta di pagliuzze o travi, allarghiamo ulteriormente il campo.
Approdiamo così alla confinante Polonia, dove del Che si parlava proprio un anno fa: Ernesto era al centro di una polemica commerciale (serve ribadire quanto il suo viso sia diventato in fondo un fenomeno figlio del capitalismo?). La catena d’abbigliamento C&A aveva iniziato a vendere delle magliette con la sua foto: in seguito alla messa sul mercato si sono succedete delle proteste in rete, che hanno costretto la catena a ritirarlo dal commercio. Anche lo Spiegel aveva trattato la vicenda: “Mentre il ritratto del rivoluzionario altrove viene ritenuto un simbolo della libertà e della resistenza, molti Polacchi vi vedono la glorificazione di un criminale”. Ora non siamo poi tanto sicuri che la questione riguardi soltanto i Polacchi.
Che si tratti di Germania, di Berlino, di Polonia o di qualunque altro Stato, la questione infatti non cambia: rimangono forti il potere dei simboli e la loro mitizzazione o demonizzazione. Resta interessante come sulla stessa persona e soprattutto sulla sua eredità storico-politica si possano trarre le più antitetiche considerazioni. Di cosa ci stupiamo in fondo noi, Italiani polemizzatori, poco inclini a fare i conti con la storia nostra e con quella degli altri? Ecco, forse in fondo in fondo allora il luogo conta: è il concetto del corretto e del politicamente accettabile ad assumere facce diverse a seconda dei confini geografici. Forse, più che dire che la Storia la scrivono i vincitori (pensiamo alle polemiche verso il fenomeno Nipster), andrebbe ricordato come le vittime di ogni regime, di ogni ideologia tendano a ricordare i torti subiti. Con buona pace di chi crede di essere sempre capace di sentire nel più profondo di se stesso “ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo”.
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